CAPITOLO I
L’odore di morte aleggia in tutta la stanza imperiale della dimora di Castelfiorentino di Puglia. Si diffonde prepotentemente, come una sequenza del Veni Creator Spiritus tra le navate della cattedrale o la prima Sura cantata dal muezzin dal minareto. Raggiunge le segrete del castello.
Qui si è rifugiato Bonaventura, che mai e poi mai avrebbe voluto vedere morire il suo amato imperatore.
Il tentativo di rimanere in disparte e di non voler far trapelare, né condividere, il suo dolore è vano. La voce roboante di Salimbene, il più grosso e grasso dei consiglieri del re, figura bizzarra che sembra or ora uscita da una commedia plautina, lo raggiunge.
«L’imperatore vuole vederti».
Bonaventura, prima che Salimbene possa accorgersene, asciuga le lacrime, riacquista il suo solito contegno e decoro e si maschera da giullare, qual è.
Sono ormai diverse settimane che l’imperatore non lo convoca. E l’andirivieni di medici, preti, consiglieri, amici e nemici, lascia presagire un’imminente tragedia. Quando, già da lontano, ha sentito il passo pesante e lento di Salimbene riecheggiare nel luogo silenzioso dove si trova - ormai ha imparato a riconoscere i passi di tutti – ha iniziato a tremare all’idea che, tra non molto, ci sarà un buco nero.
Si! Sta esplodendo davvero un grandissimo sole.
Decide di non indossare il copricapo, troppo rumoroso e festoso, che non gli permetterebbe di entrare in sordina negli appartamenti imperiali.
Ma non si cambia d’abito, ritenendo il suo, colorato e a righe, giusto per un così solenne e tragico evento che, Bonaventura lo sa bene, porterà disordine, caos, smarrimento, vuoto.
E’ anche un altro il motivo per il quale Bonaventura decide di presentarsi al cospetto del re moribondo vestito da giullare: quel costume è la sua epidermide. Quando lo indossa, si sente nudo. Se stesso. Non che gli stesse perfettamente a pennello, essendo di seconda mano. Lui, infatti, è troppo alto e magro per un costume abitualmente usato da persone basse e tarchiate. Ma non fa niente. Con quell’abito indosso lui si sente officiante della più bella delle cerimonie: l’esaltazione della bellezza della vita.
Entrato nella stanza reale e avvicinatosi al capezzale dell’imperatore, fa fatica a riconoscere in quel martoriato e consunto corpo l’uomo forte e vigoroso di un tempo. Nella stanza sono presenti i consiglieri dell’imperatore, l’arcivescovo di Palermo Berardo e Manfredi, il figlio prediletto dell’imperatore.
Bonaventura cerca in tutti i modi di confondersi tra gli astanti e non catturare su di sé l’attenzione dell’imperatore e, soprattutto, l’invidia di quanti in quegli anni non avevano mai compreso come Federico II avesse potuto prediligere a loro, che ricoprivano cariche ragguardevoli, un trovatore buffone. Ma l’imperatore si è accorto della sua presenza, appena varcata la soglia della stanza.
«Bonaventura, vieni avanti!».
La sua voce non è più quella piena e squillante di un tempo ma flebile e gracchiante, quasi sospirata, come se le corde vocali fossero degli ingranaggi arrugginiti che stridono tra loro.
Bonaventura si avvicina. Gli è difficile mascherare ciò che prova.
«Mio sire». Le parole e il sorriso di sempre.
«Là, sul tavolo, c’è un libro, prendilo».
Bonaventura si avvicina al tavolo attorno al quale tante volte avevano mangiato e bevuto, dissertando su ogni cosa. In quei momenti non esistevano l’imperatore Federico II Hoenstaufen e Bonaventura Vacalebre il giullare, ma semplicemente Federico e Bonaventura.
Il libro poggiato sul tavolo è La Canzone di Orlando.
«Apri le pagine segnate e leggi i versi che ho siglato. Ti chiedo di attendere, però, che tutti i signori presenti, anche tu Manfredi, figlio mio, vadano fuori e ci lascino soli».
Ancora una volta l’imperatore preferisce lui a tutti! Anche al suo figlio prediletto!
Forse in altra occasione Manfredi avrebbe obiettato, avrebbe chiesto spiegazioni, si sarebbe tenacemente opposto alla volontà del padre. Questa volta è diverso.
Usciti tutti, Bonaventura apre il libro e, facendo una cosa che mai avrebbe pensato di fare in passato, cioè sedersi sul letto dell’imperatore, inizia a declamare:
«Ço sent Rollant que la mort le tresprent,
Devers la teste sur le quer li descent.
Desuz un pin i est alet curant,
Sur l'erbe verte s'i est culcet adenz,
Desuz lui met s'espee e l'olifan (en sumet);
Turnat sa teste vers la paiene gent
Pur ço l'at fait que il voelt veirement
Que Carles diet e trestute sa gent,
Li gentilz quens, qu'il fut mort cunquerant.
Cleimet sa culpe e menut e suvent;
Pur ses pecchez Deu (recleimet) en puroffrid lo guant.
Ço sent Rollant de sun tens n'i ad plus.
Devers Espaigne est en un pui agut;
A l'une main si ad sun piz batud:
«Deus, meie culpe vers les tues vertuz
De mes pecchez, des granz e des menuz
Que jo ai fait l’ure que nez
Tresqu’a cest jur que ci sui consoüt!
Sun destre guant en ad vers Deu tendut:
Angles del ciel i discendent a lui..@»
Bonaventura si è accorto che Federico II non lo ha ascoltato. Per la prima volta il giullare vede nell’imperatore uno sguardo smarrito e triste. Non che abbia paura della morte, di questo Bonaventura ne è certo. Gli occhi di Federico mostrano la tristezza e l’angoscia di un uomo che sa di non poter più operare in questa vita, la tristezza e l’angoscia di chi sa che non è ancora il tempo di morire. Non ha ancora realizzato tutti i suoi proponimenti. La sua assenza cancellerà anche ciò che ha costruito. Sa che non potrà essere sostituito, nemmeno dai suoi figli. Esterna tutta la sua afflizione piangendo. Nessuna celestiale melodia, nemmeno il più coinvolgente e commovente poema o poesia, hanno scosso Bonaventura fin nelle sue viscere così tanto come la scena che i suoi occhi appannati stanno vedendo. Frena l’istinto di irrompere in un pianto disperato. Frena l’istinto di abbracciare fortemente l’amico, quasi a volergli dire “non accadrà nulla, ci sono io qui!”, o forse “non mi lasciare qui, solo! Che ne sarà di me dopo che sarai morto?”. Il suo cuore nervosamente pulsa in maniera irregolare e accelerata, irrorando sangue anche nelle estremità del suo corpo, solitamente fredde. Ha caldo Bonaventura. Ha caldo e un cuore che sembra diventato cento volte più grande. Preme contro i polmoni, la gabbia toracica, la trachea. Si sente soffocare. Vorrebbe sentire dal suo imperatore le solite parole di rassicurazione e di conforto. Ma Federico II tace e piange. Sembra che la sua mente sia già altrove.
«Le colonne siglate sono terminate. Volete che continui, mio sire?».
«No. Lascia stare. C’è un’ultima cosa che devi fare per me. Laggiù, nel baule sotto la finestra, c’è un saio che ho gelosamente custodito fin dal 1220, anno in cui sono stato accolto nell’Ordine dei Cistercensi. Con queste umili vesti di un povero penitente intendo lasciare questo mondo. Aiutami ad infilarlo sotto la tunica che indosso».
L’imperatore si lascia vestire come un bambino in fasce. Sembra che anche il peso abbia abbandonato il suo corpo, che Bonaventura riesce a sollevare senza fatica. E il saio cistercense è abilmente nascosto dalla tunica che indossa Federico, sulla quale l’imperatore ha voluto che fosse ricamato il saluto islamico ma as-salàm calaykum na rahmet Allâh na barakâtuhu, col quale chiudeva tutte le sue missive, in special modo quelle della sua corrispondenza con gli islamici, che iniziava sempre con la basmalah. Missive che Bonaventura conosce bene. Federico II gliele ha lette e rilette più volte. Soprattutto quelle inviategli da Ibn Sabcîn, filosofo musulmano di origine visigota, che ha sapientemente risposto ai numerosi quesiti posti dall’imperatore circa la durata del mondo, lo scopo della teologia, i dieci concetti dell’essere elencati nella logica aristotelica, l’immortalità dell’anima, il significato esoterico dell’ hadîth, secondo cui il cuore del credente sta tra due dita del Misericordioso.
Bonaventura questa volta esegue gli ordini dando libero sfogo al suo dolore. Sta dicendo addio al suo caro amico, all’unica vera persona in grado di scavare nei meandri più profondi del suo animo e di apprezzarlo come poeta.
«Apud portam ferream, ne lo loco che abet lo nome de flore=. Tutto sta accadendo così come Michele Scoto mi aveva predetto. Scioccamente ho sempre creduto che si riferisse alla città di Firenze. E invece no! E’ questo il luogo, Castelfiorentino, nella mia amata Apulia. E non mi trovo forse sotto una porta di ferro?»
Bonaventura solo adesso si accorge che il letto dell’imperatore è stato spostato dalla consueta posizione di fronte ad una finestra e collocato contro una porta di ferro da cui si accedeva fino a qualche anno prima ad una delle torri del castello. La porta è stata ermeticamente chiusa per volontà dello stesso imperatore, quando Libero, un bambino di quattro anni figlio dello stalliere, sfuggito al controllo dei genitori, era salito su per le scale ed era riuscito ad arrampicarsi sulla finestra precipitando di sotto. Federico II lo aveva visto passare proprio guardando oltre quella porta di ferro, che era sempre aperta. Stava leggendo una missiva giuntagli dall’Oriente, quando una voce concitata e disperata lo aveva distratto. Era il padre del piccolo, che intimava al figlio di fermarsi, minacciando di punirlo severamente. Ma il piccolo, noncurante del padre, che a fatica riusciva a stargli dietro, continuava a correre e ridere. La sua era una risata spensierata e divertita, tipica dei bambini che sanno bene di disobbedire ai genitori. L’imperatore, gettata a terra la lettera, si era precipitato su per le scale correndogli dietro. Lo aveva raggiunto ed era riuscito ad afferrarlo per il camicino che indossava. Ma il camicino era troppo grande ed il piccolo era già completamente fuori dalla finestra. Federico II rimase col camicino in mano. Nei giorni successivi, l’immagine di quel bambino che correva su per le scale lo stava tormentando. Decise, così, di far chiudere tutte le porte di accesso a quella torre, che per lui era diventato un luogo sacro ed inviolabile. Decise anche di rendere ancor più sobrio di quanto già non lo fosse l’arredo della sua stanza: un letto dal quale poter guardare fuori dalla finestra, un baule che custodisse le sue vesti ed uno scrittoio con delle sedie, che l’imperatore non disdegnava far imbandire per bere, mangiare e dissertare con qualche amico fidato.
Anticipando quella che sarebbe sicuramente stata l’ultima richiesta dell’imperatore, Bonaventura comincia a intonare i versi di un suo componimento che è sempre stato tra i preferiti di Federico. Mentre declama, prende una sedia e va a sedersi accanto al letto dell’imperatore. Non avrebbe mai fatto una cosa così ardita. Mai l’imperatore, nonostante la loro amicizia, gli aveva permesso di avvicinarsi così tanto.
Escatologici e molteplici pensieri
di un ego che cercava il tutto obliar
smarrito nei più ascosi sentieri
conducenti, comunque, all’ultimo navigar.
Segni di una sferza, per genitrice mano,
dolore immenso, al familiare arcano,
inspiegabil cosa è il continuo patir!
Vitale afflato che sempre dentro spira,
l’alma continua a nutrir,
alma che ogni cosa mira,
conosce, ora, il grande gioir.
Fugace e futil cosa è il viver
se in alma pasce il dolor;
immortal è il solo, per un istante, rider
se in alma nasce l’amor.
Tutto tace. I giardini del palazzo, curati, ricchi di flora e fauna, così come Federico II ha sempre voluto, improvvisamente sembrano inaridirsi. I falchi dell’imperatore emettono strani versi. Bonaventura, ora che ha terminato la lettura, li sente. Sa che stanno dicendo grazie all’uomo che non li ha cigliati ma coperti con un semplice cappuccio per addestrarli.
«Li senti? Non permettere mai a nessuno di far loro del male. Ricorda sempre che c’è stato un tale Federico II di Hohenstaufen che è diventato un esperto falconiere e abile addestratore amando e rispettando gli uccelli. Ha risparmiato loro atrocità, mutilazioni e torture d’ogni sorta. Dì a tutti di osservarli, di studiarli personalmente, di non affidarsi esclusivamente alle lezioni scritte e orali. La certezza non si raggiunge solo con l’orecchio».
L’afflato vitale abbandona Federico in quell’istante, lasciando sul suo volto misteriosamente asciutto un ultimo sorriso.
Lo Stupor Mundi muore. Al suo capezzale in quell’istante solo un buffone di corte.
@ Orlando sente che la morte lo prende,/che dalla testa sopra il cuore gli scende./Se ne va subito sotto un pino correndo/ e qui si corica, steso sull’erba verde;/sotto, la spada e l’olifante mette;/verso i pagani poi rivolge la testa:/e questo fa perché vuole davvero/che dica Carlo con tutta la sua gente/che il nobil conte è perito vivendo./Le proprie colpe va spesso ripetendo e a Dio per esse il suo guanto protende./ Orlando sente che il suo tempo è compiuto./Volto alla Spagna sta sopra un poggio aguzzo./ Con una mano il petto s’è battuto: / “Dio, colpa mia verso le tue virtù,/per i peccati, sia grandi che minuti, che dal momento in cui nacqui ho compiuti/fino a quest’ora che sono qui abbattuto!”/Il guanto destro verso il Signore allunga/. E scendon angeli dal cielo incontro a lui.
= Morirete vicino la porta di ferro, in un luogo il cui nome sarà formato dalla parola fiore