Lasciate che mi presenti a voi. Il mio nome è Bonaventura Vacalebre e sono nato in un piccolissimo paesino denominato Elva, arroccato sui monti delle vallate occitane. Ebbene, io ho avuto l’onore di conoscere, vivere accanto a lui e diventare amico dell’imperatore Federico II. Cosa? Ah! Si certo...voi sicuramente starete pensando: “Non è sì gran difficil cosa! Sei Maestro Templare!”. Oggidì io lo sono. Allora non ero altro che un imberbe ragazzo fuggito di casa che vagava in cerca di buona sorte. Vi racconto cosa accadde. Mio padre era un mercante che, mancando per lunghi periodi, vedeva in me, primo di dieci figli, la persona che avrebbe dovuto dedicarsi alla vendita delle merci ch’egli acquistava. Avrei dovuto imparare l’arte del commercio. Ma in me s’era già prepotentemente insediato l’amore per un’altra arte, quella della parola, nato grazie alle lunghe letture che facevo di notte, nella stalla e a lume di candela per non essere visto. Dunque, dopo aver sbrigato le noiose ed abbrutenti pratiche che mi imponeva mio padre, trascorrevo il mio tempo a leggere libri e raccontare storie ai miei fratelli. Fu questo il motivo dei violenti scontri con la mia famiglia. Decisi di andar via per “coltivare il mio animo piuttosto che cibo per il mio corpo”. Così dissi a mia madre in lacrime, mentre mio padre, furioso, continuava a lanciarmi dietro ogni cosa avesse a tiro. Trascorsi i primi tempi vivendo d’ogni sorta d’espediente, fino a quando non feci l’importante incontro che mi ha condotto dall’imperatore Federico II. Mi trovavo in un piccolo borgo nei pressi di Firenze. Ero seduto per terra, con la schiena appoggiata a un palazzo nobiliare che dava su una delle vie principali. Non avendo denaro e non sapendo come procurarmi del cibo, mi misi a leggere. Stavo, dunque, leggendo quando un frate, assorto in chissà quali meditazioni, inciampò sui miei piedi e cadde in malo modo. Conobbi, così, frate Elia, seguace di Francesco, il poverello di Assisi. Questo frate era stato rinnegato dai suoi fratelli per le sue esperienze alchemiche. Accusato di magia, stava cercando riparo in un luogo pregno di tolleranza e di rispetto. Stava cercando riparo presso Federico II. Affascinato da questo frate, decisi di compiere il viaggio con lui, incuriosito anche dai numerosi racconti che avevo sentito sullo Stupor Mundi. La corte di Federico II è stata per me un porto sicuro dove approdare. Frate Elia, invece, non vi rimase che qualche mese, prima di ritirarsi in romitaggio, solitario, con pochi fedeli seguaci, presso Cortona.

“Benvenuti nel nostro palazzo. Siamo certi che la vostra presenza sarà di giovamento e trarrà giovamento nello stare in questo luogo”. Queste furono le parole con le quali l’imperatore ci accolse. Ricordo che rimasi affascinato, ma non dal palazzo; non dalle scuderie, da sole grandi forse cinquanta volte la mia piccola casetta; non dai magazzini e dalle stalle, non dai rigogliosi giardini, cheper un momento mi avevano indotto a credere d’essere finito nell’Eden. Rimasi affascinato da lui, dall’imperatore Federico II di Svevia! Frate Elia così mi introdusse al suo cospetto: “ Permettetemi, Sire, di raccomandarvi questo ragazzo. Ha una sensibilità fuori dal comune, un’inclinazione per il componimento letterario e tanta passione per le arti. So che alla vostra corte ce ne sono già tanti, ma non disdegnate d’accoglierlo come giullare. Egli è l’espressione della raffinatezza dell’arte trovatorica e ha una certa inclinazione per le scienze”.

Così gli rispose l’imperatore: “Frate Elia, come potremmo mai rifiutare questo ragazzo, se siete voi a raccomandarlo con tanta premura?Avete fatto nascere in me tanta curiosità da volerlo subito mettere alla prova. Tu...non mi ricordo il tuo nome”.

“Il mio nome è Bonaventura Vacalebre e sono nato ad Elva, in Occitania”. La voce mi tremava e non riuscivo a controllarla. Mi sentivo come se il mio corpo fosse stato immerso in una pozza d’acqua nella quale fosse stata gettata una pietra, il tremolio cominciò a espandersi per tutto il corpo. I miei arti non mi ubbidivano, andavano da soli in movimenti convulsi. Non sapevo che fare. Ero timido, impacciato. L’imperatore, con gli con gli occhi sorridenti e con lo sguardo amichevole, mi venne incontro chiedendomi di fargli sentire uno dei miei componimenti. Improvvisamente diventai di nuovo padrone del mio corpo, riacquistai la sicurezza che fino a qualche istante prima sembrava avessi lasciato chissà dove. Misi giù la grossa sacca che avevo ancora sulle spalle, tirai fuori un foglio di carta e una vecchia ghironda.

“Conosco a memoria centinaia di chanson de geste. Sicuro sire che vi aggrada di più ascoltare un mio componimento?” “Conosciamo anche noi benissimo le chanson, e non abbiamo necessità di ascoltarle adesso. Al tuo sovrano non farai più domande a meno che non ti venga espressamente richiesto! Comincia!”

Rossi in viso, vergognandomi di leggere i miei scritti al cospetto di sì grande uomo, dispiegai il foglio che avevo appena estratto dalla sacca e accompagnandomi con la ghironda, cominciai a intonare:

Escatologici e molteplici pensieri di un ego che cercava il tutto obliar smarrito nei più ascosi sentieri conducenti, comunque, all’ultimo navigar. Segno di una sferza, per genitrice mano, dolore immenso, al familiare arcano, inspiegabil cosa è il continuo patir! Vitale afflato che sempre dentro spira, l’alma continua a nutrir, alma che ogni cosa spira, l’alma continua a nutrir, alma che ogni cosa mira, conosce, ora, il grande gioir.

Quando terminai l’esecuzione, l’imperatore tacque. Trascorse un tempo indefinito di assordante silenzio.

“Puoi consegnarci tale foglio?” Mi avvicinai con incedere incerto e goffo. Mi inginocchiai porgendo all’imperatore il foglio orma logoro e sudicio. Federico II lo piegò e se lo ripose in grembo sotto il mantello reale. “Posso copiarvelo su una nuova pergamena in bella grafia, mio Sire!” L’imperatore non mi rispose, ma dall’espressione capii che non intendeva riconsegnarmi quel foglio. Capii quel giorno che avrei dovuto imparare l’Arte del Silenzio.

 Il ricordare mi fa assalire da un forte senso di vuoto e tristezza. Lo stesso vuoto e la stessa tristezza di quando lessi per l’ultima volta all’imperatore il mio componimento. Quel giorno l’odore di morte aleggiava in tutta la stanza imperiale della dimora di Castelfiorentino di Puglia. Si diffondeva prepotentemente, come una sequenza del Veni Creator Spiritus tra le navate della cattedrale e la prima Sura salmodiata dal muezzin dal minareto. Mi raggiunse nelle segrete del castello, dove mi ero rifugiato. Volevo rimanere in disparte per non far trapelare, né condividere il mio dolore. Ma il mio tentativo fu vano. Mi raggiunse la voce di Salimbene, consigliere del re, figura bizzarra che sembrava uscita da una commedia plautina. Asciugai le lacrime prima che l’uomo mi vedesse, riacquistai il mio solito contegno e mi mascherai da giullare, quale ero. Sapevo che stava esplodendo un grandissimo sole e che ci sarebbe stato un buco nero. Decisi di non indossare il copricapo, troppo rumoroso e festoso. Ma non mi cambiai d’abito, ritenendo il mio, colorato e a righe, giusto per un così tragico evento che avrebbe portato disordine, smarrimento, caos. Fu anche altro il motivo dell’indossare il vestito da giullare. Quel costume è sempre stata la mai epidermide. Quando lo indossavo mi sentivo nudo. Me stesso. Non che mi stesse perfettamente a pennello, essendo di seconda mano. Con quell’abito mi sentivo officiante della più emozionante delle cerimonie: l’esaltazione della bellezza della vita.

Entrato nella stanza reale e avvicinatomi al capezzale dell’imperatore, feci fatica a riconoscere, in quel martoriato e consunto corpo, l’uomo forte e vigoroso di un tempo. Nella stanza erano presenti i consiglieri, l’arcivescovo di Palermo Berardo e Manfredi, il figlio prediletto. Cercai di confondermi tra gli astanti. Ma l’imperatore si accorse subito della mia presenza.

“Bonaventura, vieni avanti!” La sua voce non era più quella piena e squillante di un tempo, ma flebile e gracchiante, quasi sospirata, come se le corde vocali fossero degli ingranaggi arrugginiti che stridevano tra loro. Mia avvicinai. Era difficile mascherare ciò che provavo. “Mio sire!”. Le parole e il sorriso di sempre. “Là sul tavolo, c’è un libro, prendilo!”. Mi avvicinai al tavolo attorno al quale tante volte avevamo mangiato, bevuto e dissertato su ogni cosa. In quei momenti non esistevano l’imperatore Federico II Hohenstaufen e Bonaventura Vacalebre, giullare di corte, ma semplicemente Federico e Bonaventura. Il libro poggiato sul tavolo era la Chanson de Roland.

“Apri le pagine segnate e leggi i versi che ho siglato. Prima, per, ti chiedo che tutti i signori presenti, anche tu Manfredi, figlio mio, vadano fuori!” Ancora una volta l’imperatore aveva preferito me a tutti! Persino al suo figlio prediletto! Quando tutti uscirono, aprii il libro e, postomi ai piedi del letto, lessi i passi scelti dall’imperatore, i passi in cui si descriveva la morte di Orlando. Quando terminai la lettura, mi accorsi che Federico non mi aveva ascoltato. Per la prima volta vidi sul suo volto uno sguardo smarrito e triste. Non che avesse paura della morte. Gli occhi di Federico II mostravano la tristezza e l’angoscia di un uomo che sapeva di non poter operare più in questa vita, la tristezza e l’angoscia di chi sapeva che non era ancora giunto il tempo di morire. Non aveva ancora realizzato tutti i suoi proponimenti. La sua assenza sicuramente avrebbe cancellato tutto ciò che lui aveva costruito. Sapeva di non poter essere sostituito, nemmeno dai suoi figli. Federico esternò tutta la sua afflizione piangendo. Nessuna celestiale melodia, nemmeno il più commovente e coinvolgente poema, mi scossero così tanto nelle viscere. Frenai l’istinto di irrompere in un pianto disperato. Frenai l’istinto di abbracciare fortemente quell’amico morente per volergli dire: “non accadrà nulla, ci sono io qui!”, o forse per volergli dire: “non mi lasciare qui solo!”. Il mio cuore nervosamente iniziò a pulsare in maniera irregolare e accelerata, irrorando sangue anche nelle estremità del mio corpo solitamente fredde. Avevo caldo. Avevo caldo e un cuore e un cuore che sembrava diventato cento volte più grande. Premeva contro i polmoni, la gabbia toracica, la trachea. Mi sentivo soffocare. Volevo che l’imperatore mi parlasse, mi rassicurasse come aveva sempre fatto, con la fermezza e la fierezza di sempre. Ma Federico II taceva. Sembrava che la sua mente fosse già altrove. Mi fece una richiesta.

“Laggiù nel baule sotto la finestra c’è un saio che ho gelosamente custodito dal lontano 1220, anno in cui sono stato accolto nell’Ordine dei Cistercensi. Con queste umili vesti di un povero penitente intendo lasciare questo mondo. Aiutami ad infilarlo sotto la tunica che indosso.”

L’imperatore si lasciò vestire come un bambino. E il saio fu nascosto sotto la tunica sulla quale l’imperatore aveva fatto ricamare il saluto islamico ma as- salàm calaykum na rame Allâh na barakâtuhu, col quale era solito chiudere le sue missive, in special modo quelle della sua corrispondenza con gli islaici, che iniziava sempre con la basmalah. Io alcune le conoscevo. Me le aveva lette. Soprattutto quelle inviategli da ibn Sabcîn, filosofo musulmano di origine visigota, che aveva sapientemente risposto ai numerosi quesiti posti dall’imperatore circa la durata del mondo, lo scopo della teologia, i dieci concetti dell’essere elencati nella logica aristotelica, l’immortalità dell’anima, il significato esoterico dell’hadîth, secondo cui il cuore del credente sta tra le due mani del Misericordioso.

 Vestii l’imperatore dando libero sfogo al mio dolore. Stavo dicendo addio al caro amico, all’unica vera persona in grado di scavare nei meandri più profondi del mio animo e di apprezzarmi come poeta. “Apud portam ferream, ne loco che abet lo nome de flore (morirete vicino la porta di ferro, in un luogo il cui nome sarà formato dalla parola fiore). Tutto sta accadendo così come Michele Scoto mi aveva predetto. Scioccamente ho sempre creduto che si riferisse alla città di Firenze. E invece no! E’ questo il uogo! Castelfiorentino, nella mia amata Apulia! E non mi trovo forse sotto una porta di ferro?” Anticipando quella che sapevo sarebbe sicuramente stata l’ultima richiesta di Federico, cominciai ad intonare i versi del mio componimento, il suo preferito, quel componimento che ascoltò la prima volta che mi vide.

Escatologici e molteplici pensieri
 di un ego che cercava il tutto obliar 
smarrito nei più ascosi sentieri 
conducenti, comunque, all’ultimo navigar. 
Segno di una sferza, per genitrice mano, 
dolore immenso, al familiare arcano,
 inspiegabil cosa è il continuo patir! 
Vitale afflato che sempre dentro spira, 
l’alma continua a nutrir, 
alma che ogni cosa spira, 
l’alma continua a nutrir, 
alma che ogni cosa mira, 
conosce, ora, il grande gioir.

Tutto tacque. I giardino del palazzo, curati, ricchi di flora e fauna, così come Federico II aveva sempre voluto, improvvisamente sembravano inaridirsi. I falchi dell’imperatore emettevano strani versi omaggiandolo. Dicevano grazie all’uomo che non li aveva cigliati, ma coperti con un semplice cappuccio per addestrarli.

“Li senti? Non permettere mai a nessuno di far loro del male. Ricorda sempre che c’è stato un tale Federico II di Hohenstaufen che è diventato un esperto falconiere e abile addestratore amando e rispettando gli uccelli. Ha risparmiato loro atrocità, mutilazioni e torture d’ogni sorta. Dì a tutti di osservarli, di studiarli personalmente, di non affidarsi esclusivamente alle lezioni scritte e orali. La certezza non si raggiunge solo con l’orecchio”.

In quell’istante l’afflato vitale abbandonò l’imperatore, lasciando sul suo volto misteriosamente asciutto un ultimo sorriso. E così è morto lo Stupor Mundi. Al suo capezzale, Bonaventura Vacalebre, un semplice buffone di corte. 

Il rimembrare è per me sì doloroso, che mi è difficile proseguire. Ma voglio farlo, devo farlo. Perché? Perché sì grande uomo, sì grande illuminato di conosca e sia di esempio. Dov’ero? Ah! Si! Federico II passò dunque nelle valle celesti. La dimora imperiale, dove si consumarono gli ultimi istanti di Federico II, divenne luogo di pellegrinaggio di quanti volevano rendergli l’ultimo omaggio. Arrivarono delegazioni di tutti gli ordini cavallereschi: Ospedalieri, Teutonici, Folàs saraceni, Batynayah Rabiti di Spagna e Templari. Tutti stimavano e ammiravano l’uomo, lo statista, l’illuminato. I ferventi preparativi per il funerale mi permisero di allontanarmi dalle stanze imperiali senza che alcuno se ne accorgesse. Volevo prepotentemente ed egoisticamente eludere un’eventuale richiesta di declamare qualche componimento mio o di Federico durante la cerimonia funebre. L’unico posto dove poter ritrovare me stesso, era la piccolissima stanza che l’imperatore mi concesse come privilegio. Prima di recarmi lì, mi affacciai da una finestra del corridoio adiacente alla stanza dell’imperatore. Avevo già, altre volte, visto persone d’ogni credo e d’ogni razza durante le feste, i banchetti a palazzo, le battute di caccia. Ma non le avevo mai vist così unite nel dolore e nella disperazione. Ognuno pregava secondo i dettami della propria fede. Ciò che arrivava alle mie orecchie era una melodia unica, che sembrava uscire da una bocca divina. Sorrisi. Ero certo che Federico II fosse in mezzo a loro e stesse pregando con loro. Federico in quell’istante non giaceva in quella fredda stanza, circondato da preti e faccendieri, dove, forse, gli unici a soffrire erano i suoi figli. L’imperatore stava ballando e cantando tra le sue genti, cercando di carpire dalle menti dotte che ha voluto incontrare nel suo percorso terreno, quanto più possibile per arrivare ad armonizzarsi con la Luce.

Quando mi recai nella mia stanza, non mi accorsi inizialmente della presenza di qualcuno. Fu solo quando mi avvicinai al letto che vidi un uomo steso, con folti capelli neri e con indosso una tunica azzurra, con sopra ricamata la costellazione dell’aquila. Era Giovanni, figlio di Michele Scoto, l’insigne matematico, cabalista e alchimista, mago e astrologo personale dell’imperatore. Assorto a guardare la luce solare che penetrava dalla finestra, disse queste parole:

«Lo Stupor Mundi se n’è andato! Sarà un vuoto incolmabile»

La sua voce era ferma, risoluta, ma priva di qualsiasi accento. Mi sedetti accanto a lui. Cosa avrei potuto dire per confortare quell’uomo? Non proferisce parola. Come potevo io, in preda allo sconforto, confortare? Per la prima volta io, un giullare, un giocoliere con le parole, rimasi in silenzio, preferendolo a qualsiasi suono.

«Noi vi preghiamo di volerci spiegare l’edificio della terra, e precisamente quanto è alta la sua solida consistenza sovrastante gli abissi; ...se laggiù esista qualche altra cosa che la sorregge oltre l’aria e l’acqua; l’esatta misura che separa un cielo dall’altro e ciò che esiste al di là dell’ultimo cielo; in quale cielo Dio, per sua natura, si trovi, ed in che modo egli sta assiso sul trono celeste, e come gli facciano corona gli angeli e i santi e cosa facciano gli angeli e i santi costantemente in sua presenza...inoltre desideriamo sapere dove esattamente si trovino l’Inferno, il Purgatorio ed il Paradiso: sotto la terra, nella terra o sopra di essa? E se un’anima nell’aldilà riconosca un’altra anima e se taluna di esse possa ritornare in vita per parlare con qualcuno o mostrarglisi. Quante ore, giornate, nottate ha trascorso mio padre con lui cercando di abbeverare quell’assetato di Sapere.»

Parlava con lo sguardo sempre rivolto alla luce. Ero impotente di fronte a quell’uomo, il cui dolore lo aveva fatto divenire preda del delirio. Mi guardai intorno in cerca un aiuto e lo sguardo cade su una pergamena poggiata sul tavolo.

Della rosa fronzuta
diventerò pellegrino; 
ch’io l’aggio così perduta.
 Perduta non voglio che sia, 
né di questo secolo gita, 
ma l’uomo che l’ha in balia,
di tutte le gioie l’ha partita.

Udendo le parole anche a lui familiari della composizione federiciana, Giovanni sembrò ritornare in sé. Parlò guardandomi.

«Che divino componimento! Mi ci volle del tempo per capire che con rosa l’imperatore volesse simbolicamente intendere una donna. Che gran cosa gli avvenimenti culturali alla sua corte! E quali grandi dispute l’hanno animata! Ricordi quella che vedeva contrapposti trovatori francesi e rimatori della scuola siciliana? Eri già giunto alla sua corte? Argomento di tale disputa fu la musica, ritenuta indispensabile accompagnatrice per i francesi. I siciliani invece raramente la abbinavano alle loro composizioni. In quell’occasione il nostro caro puer Apuliae sostenne che la lirica d’arte deve emulare quella dei trovatori francesi e quella tedesca dei Minnesäger. Federico II si discostò totalmente dalle scelte dei suoi poeti, pur essendone grande estimatore. Egli accoglieva sempre si buon grado la musica. Se ne serviva sempre non solo durante le feste, i banchetti e le cerimonie ufficiali, ma anche nelle campagne militari e nei tornei di caccia. E qualli ufficiali. Se n’è sempre servito anche nelle campagne militari e nei tornei di caccia. E quali illustri personaggi vi prendevano parte: Rimbaut de Vaiqueras, Piere Vidal, il cantore tedesco Cavaliere di Tannhäuser. E Pier Delle Vigne, pover’uomo!, vittima dell’invidia e della stupidità umana. Oh! Ma tu queste cose ben le conosci.»

Sia per sdrammatizzare, sia per evitare di ricordare, Bonaventura, balzando giù dal letto con l’agilità tipica dei danzatori, uscii dalla dalla stanza per rimediare del cibo. Mangiammo e bevemmo di buon gusto, dedicando un ultimo brindisi a Federico II.

L’ilarità di Giovanni si smorzò. Serio in volto mi chiese. «Ora che farai? »

«Mio signore, io sono sempre stato un ramingo. Andrò in cerca di fortuna. Forse ritornerò a casa, ad Elva , in Occitania O forse altrove, chissà!»

«Se vuoi, puoi venire con me».

«Partite anche voi?»

«Si. Vado ad Aquila, la straordinaria città fondata da Federico. Avevo avuto il compito di verificare che fosse stata costruita così come l’avevano progettata lui e mio padre. E, nonostante sia morto il nostro imperatore, voglio eseguire il suo ultimo ordine. Ma non sono dell’umore giusto per viaggiare da solo».

Accettai di buon grado. Il mio spirito avventuriero e ramingo non si era assopito e mi si presentava l’occasione di lasciare la tristezza accanto alla salma di Federico e iniziare un nuovo viaggio.

Partimmo all’alba. Durante il viaggio incontrammo una persona che diventerà in seguito per me il padre che non ho mai avuto, il Maestro che tutti cercano, la guida di cui tutti hanno bisogno almeno una volta nella vita. Stavamo cavalcando per i luoghi boschivi e ricchi di corsi d’acqua dell’Apulia. A un certo punto, vedemmo uno scudo appeso a un olmo e Giovanni intuì che c’era stata una cerimonia di sepoltura di un cavaliere. Qualche istante dopo aver scorto lo scuto, cinque cavalieri a cavallo ci sbarrarono la strada. Giovanni intuì che l’intenzione dei cavalieri è bellicosa e se ne meravigliò. Avevano croce rossa sulle loro tuniche! Erano Cavalieri dell’Ordine del Tempio!

Giovanni mantenne la calma calma e a gridò: «Non nobis, domine, non nobis. Sed nomini tuo da gloriam» (Non a noi, o Signore, ma al tuo nome dà gloria) All’udire quelle parole, immediatamente i cinque uomini si arrestarono.

«Chi sei tu, dunque, che conosci il nostro motto? Dalle tue vesti, non sembri appartenere al nostro Ordine ».

«Sono Giovanni, figlio di Michele Scoto. Non appartengo al vostro ordine, ma conosco molti templari».

All’udire il nome, uno dei cinque cavalieri, l’unico in sella a un cavallo bianco, si sfilò l’elmo per farsi riconoscere.

«Maestro Giacomo!»

Giovanni conosceva bene quell’uomo. Era un Maestro Templare, grande amico di suo padre e suo padrino.

E col tempo lo conobbi e grazie a lui anche io e grazie a lui conobbi alcune cose dell’imperatore Federico II che non sapevo. Non sapevo che avesse costruito un tempio, il suo tempio. Lo visitai proprio con Maestro Giacomo. Ricordo ogni singolo particolare di quando giungemmo a Castel del Monte. Quando entrammo nella superba costruzione federiciana, ci recammo nel cortile. Maestro Giacomo camminava lentamente cercando di rendere quanto più silenziosi possibile i suoi passi. Io lo seguivo, adeguandomi al suo incedere. Quest’avanzare del Maestro mi impauriva e cominciai a guardarmi intorno. Non avevo compreso che l’incedere lento e silenzioso del Maestro scaturiva dall’estremo rispetto che l’uomo aveva di questo luogo.

«Io conservo piacevoli ricordi di questo luogo. Qui sono stato iniziato».

Maestro Giacomo si fermò di colpo al centro del cortile e volse lo sguardo al cielo. Io continuavo a guardarmi intorno, non più con paura, ma con curiosità. Adesso comincia a rasserenarsi, grazie anche alla tranquillità e al misticismo che ogni singola pietra di quella costruzione sprigionava.

«Era un luogo particolarmente caro all’imperatore. Ricordo i suoi lunghi incontri con architetti, maestri scalpellini, astrologi. Ricordo che voleva fosse tutto giusto e perfetto. E ci è riuscito. Questo luogo è straordinario perché non è un castello, anche se all’apparenza sembra esserlo».

«Non è un castello?»

«Si. Ma è anche altro. Mio caro Bonaventura, oggi tu sei entrato nel Tempio del tuo imperatore».

Quelle parole di Maestro Giacomo mi fecero andare con la memoria a un lontano convivio. Ricordai d’aver udito da Federico II una frase che lo aveva destabilizzato, confuso, perché mi aveva indotto a pesare d’essere giunto alla corte di un uomo folle che anelava a essere considerato alla stregua di un faraone egizio o di un imperatore romano. Col tempo capii che era mia cecità a farmi vedere follia in questo modo di agire. Avevo, infatti, letto, forse in qualche scritto di Diodoro Siculo, che il faraone progettava ispirato dall’amore verso il Paese e animato da bontà e giustizia assolute. La nascita di un faraone era sempre preceduta da apparizioni miracolose. Mi dovetti ricredere. Federico II non era un folle, ma un faraone del suo tempo.

«Diceva sempre: “Non morirò prima di aver realizzato il mio Tempio e la nuova Gerusalemme”. Avevo intuito che con tempio Federico definisse questo luogo, ma non ho saputo cogliere il senso delle parole nuova Gerusalemme».

«Quando giungeremo ad Aquila forse tutto ti sarà più chiaro».

«Aquila?»

Maestro Giacomo non rispose alla sua domanda. Sapeva bene che solo quando fossimo giunti ad Aquila, mi sarei reso conto della straordinarietà e singolarità di quella città.

«Non sei mai stato in questo castello prima d’ora?» «No, non c’è mai stata occasione». «Vieni te lo mostro. Ti faccio da cicerone».

Le pietre raccontano molto di più di una pagina scritta. Se si sanno leggere, sono davvero pregne di storia e significato. E se si sanno leggere nella giusta maniera, uno e solo é il significato che si può cogliere, condivisibile da tutti e senza equivoci. La lezione che Maestro Giacomo mi fornì, mi fece vedere le cose da una prospettiva completamente diversa.

«Come puoi vedere, questo castello non è dotato né di fossato, né di un ponte levatoio. Non sono presenti i sotterranei ma in compenso il suo interno è pieno di sale dotate di bagni, grandi camini costruiti per riscaldare bene questi ambienti riservati. Se presti attenzione, noterai che ci sono parecchi riferimenti al numero otto. Conta un po’ le torri. Probabilmente per te l’8 è soltanto un numero. Non è così».

Cominciai a comprendere una materia che avevo erroneamente considerato una noiosa elucubrazione di menti astruse. Maestro Giacomo mi stava parlando di numerologia.

«Tu sai, vero, che la numerologia studia la relazione mistica o esoterica esistente tra i numeri e le azioni degli oggetti fisici e degli esseri viventi? Tale relazione si conosce da tempi antichissimi. Pitagora diceva tutto è numero. Platone era convinto che la scienza dei numeri fosse stata originariamente intuita dagli uomini di Atlantide e che non si fosse diffusa perché inabissatasi con loro. I Caldei associavano l’astronomia con l’astrologia utilizzando i numeri. A Bisanzio e ad Alessandria nacquero le correnti neoplatoniche, chiamate così perché si rifacevano ai filosofi greci. Tali teorie presupponevano anche lo studio dei numeri. La numerologia è anche alla base di parecchie dottrine religiose. La Kabala ebraica, infatti, è un sistema sacro che, mediante la combinazione di figure geometriche, numeri e l’alfabeto ebraico, permette di carpire le Leggi fondamentali dell’Universo e elevarsi al Regno della Luce. Alla base della Kabala ci sono simboli come il cerchio, il triangolo e il quadrato, i numeri da 1 a 10 e le 22 lettere dell’alfabeto. Il numero 10 indica le 10 Sefirot dell’albero della vita. L’uomo, ascendendo dalla prima alla decima dimensione, si può fondere direttamente nella Logos. Il Cristianesimo, invece, ha scelto come numeri simbolici il 3 e il 12, rappresentanti la perfezione. La Trinità, che assieme al triangolo simboleggia Dio, ne è un esempio. Il 12 è sempre stato un riferimento importante: 12 le tribù di Israele, 12 gli apostoli, 12 i settori che distinguono le regioni celesti».

Maestro Giacomo ritornò al numero delle torri, al numero 8.

«Quel segno, quei due semplici cerchi posti un sull’altro, sono simbolo dell’infinito, riflesso dello spirito nel mondo creato. Nel relazionare l’8 agli altri numeri, Maestro Giacomo gli fa capire che per ognuno di essi c’è una simbologia. L’8, infatti, indica l’incognito che segue la perfezione, simboleggiata dal numero 7. Essendo un numero pari, è formato dall’energia femminile. E’ il numero che simboleggia la morte, vista come passaggio, transizione. L’8, ancora, precede il numero 9, che indica la nascita. L’8, essendo anche la somma di 4 + 4, è un numero pragmatico, in quanto esalta la natura concreta e tangibile del numero 4. Se analizzi questa costruzione, puoi notare che sorge su base quadrata. Poi il suo perimetro si trasforma in ottagonale e infine è chiuso da una semisfera ispirata dalla volta celeste. Abbiamo, quindi un ottagono - che rappresenta il passaggio dalla terra al cielo, la via per avvicinarsi alla divinità e la forma che più di tutte può canalizzare le energie nascoste - sovrastato da una sfera, da un cerchio...».

Ricordo la mia eccitazione.

«Maestro Giacomo, scusate se vi interrompo, ma vorrei condividere con voi un’informazione avuta dallo stesso imperatore, che forse si lega a quanto mi state dicendo. In una delle nostre dissertazioni conviviali, Federico II mi raccontò che in Arabia cinquecento anni fa sorsero centri di ascesi dove un maestro unico insegnava una religione segreta che propugnava l’unità del mondo. Per accogliere tutti gli iniziati, fu fatto costruire il Palazzo Rotondo, collegato alla reggia del califfo Harun Al-RAshid, esistente a Bagdad. La stessa Bagdad fu costruita secondo certe proporzioni geometriche basate sulla ruota»

«Infatti, il cerchio è una figura sacra, anche in Oriente. In sanscrito si dice mandala e rappresenta il divino e la sua ricerca. Per questo lo ritroviamo in molte costruzioni, come le cattedrali, piene di rosoni. Ecco, possiamo immaginare questa costruzione come un mandala di pietra, un simbolo. Questo castello è sicuramente un edificio sacro, un tempio che riassume l’anima stessa e il credo del nostro caro imperatore Federico II».

Se fino a quell’istante la spiegazione di Maestro Giacomo era stata semplice e comprensibile, lo diventò meno quando tentò di spiegare il numero che indica la proporzione numerica alla base di tutte le cose, il numero aureo.

«In questo castello regna sovrano il numero 1,618, che è il numero aureo. Questo numero indica una divina proporzione presente in natura. Anche nel nostro corpo è presente la sezione aurea. Se tu moltiplichi la distanza del tuo gomito sino alla mano con le dita tese per 1,618 otterrai la lunghezza del tuo braccio. Se dividi la distanza esterna degli occhi per 1,618 otterrai la lunghezza della tua bocca. Se dividi la larghezza della bocca per 1,618 otterrai la lunghezza del tuo naso. Questo rapporto regola tutto in natura: se misuri la larghezza della foglia di una rosa e la moltiplichi per 1,618, ottieni la lunghezza della stessa foglia».

Maestro Giacomo, prima di continuare il suo deambulare, fece per un istante convogliare la mia attenzione sui due leoni posti sulle colonne all’ingresso del castello: uno aveva lo sguardo rivolto nella direzione in cui sorgeva il sole al solstizio d’inverno, l’altro nella direzione in cui sorgeva al solstizio d’estate.

«Iniziamo il nostro viaggio all’interno...nel cortile ottagonale puoi notare quei 3 rosoni e 3 bifore. Perché 3 e 3? Perché il 3 è il numero della perfezione, alla quale deve aspirare l’adepto alla fine del suo percorso. La vedi quella vasca ottagonale? Se ti avvicini puoi vedere che all’interno c’è un sedile. Questa vasca non serve dunque per farsi il bagno, non è una fontana decorativa, ma è un luogo di rito».

Il Maestro si zittì di colpo, accorgendosi di aver involontariamente fatto delle rivelazioni che un non templare non dovrebbe sapere, né immaginare. Io er rapito dalla magia di quella costruzione ed ero ansioso di conoscerne la storia e il significato attraverso le parole del templare, anche se non del tutto comprensibili allora.

Dopo un lungo periodo di silenzio Maestro Giacomo decise di continuare il suo viaggio, rinfrancato dal fatto che probabilmente avrei dimenticato quanto ascoltato, non avendo la mia mente i giusti strumenti per archiviarlo nella memoria della conoscenza.

«Lo vedi quel triangolo su quel muro? E’ il triangolo pitagorico. Esso rappresenta la conoscenza che l’adepto deve possedere per poter proseguire il viaggio».

«Proprio quella che a me manca, Maestro Giacomo!. Eppure ho letto tanto nella mia vita. Evidentemente non abbastanza. Da quando vi ho conosciuto, sento più forte in me il desiderio di arrivare a questa conoscenza.»

«Tu hai inconsapevolmente già iniziato il tuo cammino, ma è passato poco tempo, e non sei ancora pronto. Dovrai allenare il tuo corpo e la tua mente. Il sapere saputo non può mostrarti la via iniziatica»

«E quando sarò pronto?»

«Lo capirai da solo. Andiamo. Si entra da questa porta a sinistra». I due uomini si portano all’interno della costruzione. «Ecco siamo nel primo piano che è volutamente privo di luce. Perché il buio? Perché è nelle tenebre che avviene l’iniziazione. Entriamo nella prima stanza. La vedi quella faccia con le orecchie d’asino? E’ re Mida che sembra volerci dire che in questo luogo c’è una verità che non può essere svelata. Conosci, suppongo, la storia di Re Mida?»

«Certo Maestro, ho messo in musica parecchie opere letterarie antiche e racconti mitologici.»

«Dobbiamo ritornare nel cortile per entrare nella camera araba».

Seguii il Maestro come uno scolaretto diligente. Sapevo che quella visita, quel luogo, le spiegazioni del Maestro, mi stavano facendo prendere una coscienza nuova e diversa. Ero combattuto tra mille sensazioni. Paura, curiosità. Mi chiesi se fosse meglio sapere o ignorare. Mi chiesi come mi sarei sentito quando il mio viaggio iniziatico sarebbe giunto al termine. Perso nei miei pensieri non mi resi conto d’essere giunto nella camera araba. Mi accorsi di essere entrato in una stanza nuova solo quando i suoi occhi furono attratti, come ferro da un magnete, da un disegno sulla parete, un doppio cerchio che include quattro cerchi

«Sono i cerchi magici, che rappresentano i quattro elementi. Questo disegno è un circuito magico. Molte persone che sono entrate in questa stanza si sono sentite male: i cerchi amplificano le correnti terrestri o telluriche. In questa stanza s’insegna l’Alchimia.»

«Maestro, dove sono tutti? Finora non abbiamo incontrato nessuno, né nei corridoi, né sulle scale.»

«Al termine dei lavori rituali c’è l’obbligo, per maestri e apprendisti, di ritirarsi per due ore nelle loro stanze per meditare in silenzio su quanto discusso e appreso. E noi approfittiamo di questo tempo per la nostra visita. Dobbiamo andarcene prima che tutti escano e si riuniscano per l’agape, una cena rituale, perché non possiamo intrattenerci con alcuno senza un permesso che a me sarebbe concesso ma a te no, perché sei un profano, come usiamo chiamare noi i non iniziati.»

A sentir parlare d’adepti e iniziazione, Bonaventura mi incupii.

«Non fantasticare e non lasciare che l’ignoto si trasformi, come spesso avviene nelle menti stolte, in un qualcosa di mostruoso. Per capire bisogna conoscere e per conoscere bisogna aprire la mente. Hai notato quell l’epigrafe all’entrata, C-L-P-DIE bb >bs IS?».

Finsi di non averla vista«Federico II non ha mai rivelato ad alcuno significato di tali lettere. Era convinto che ogni iniziato le avrebbe capite alla fine del suo personale percorso. Io, durante il mio percorso, sono giunto a tale spiegazione: “entrate nella stanza dei cerchi (C) durante il giorno (DIE) per scoprire la pietra (bb) custodita(>bs) nel luogo sacro (IS)”.

«Maestro, mi avete svelato ciò che avrei dovuto scoprire da solo!»

«Oh! Ragazzo mio, vedrai di quanto altro ancora cercherai di carpirne il significato, trascorrendo notti insonni e giorni nei quali dimenticherai addirittura di mangiare!»

Quanto poco conoscevo il mio imperatore! Ho riso, scherzato, pianto, condiviso momenti di vera amicizia!

«Che spiegazione daresti a quell’altra iscrizione lassù?» «P D P... Potest Deus Potentissimus?»

«Interessante! Ma non è un’esaltazione di Dio, bensì un avvertimento. P D P: Pericolum Decede Peritis, dato il pericolo, cedi il passo a chi sa».

Lasciata la stanza araba entrammo in quella accanto, dove c’è un camino.

«In tutta la costruzione ci sono 5 camini. Il 5 è il numero legato al fuoco».

L’intero castello è intriso di simbologia. Dopotutto Federico II per costruirlo si era avvalso di due menti illustri, alle quali seppi poi che aveva affidato anche la progettazione della città di Aquila: Leonardo Pisano e Michele Scoto, il padre di Giovanni.

«Abbiamo terminato la visita delle stanze del castello più basse, dove avviene la meditazione. Adesso ci recheremo al secondo piano, il piano della luce, dedicato ai gradi superiori del percorso iniziatico».

Seguii Maestro Giacomo su per una sala a chiocciola che, come altre presenti nel castello, si percorreva in senso antiorario, a voler dire che d’ora in poi tutte le conoscenze sarebbero state rovesciate.

«C’è un’epigrafe anche nella prima camera di questo piano, IERO: per giungere al divino è necessario essere Affamato (IErulum) di sapienza prima di ricevere il battesimo del fuoco (Rogus)».

Attraversammo diverse sale, attorno al cui perimetro correvano dei sedili di marmo, dove si insegnavano matematica, alchimia, astronomia. Giungemmo alla camera del re.

«Questa è la camera rossa, la più importante, la più ricca di simboli, riservata solo ai potentissimi».

A sentire queste parole, uscii immediatamente.

«Maestro, non voglio violare questo luogo».

«Lascia allora che ti dica solo che in questa stanza ci sono dei serpenti disegnati. Tale animale rappresenta la Vita Eterna. E c’è crittogramma sulla parete: In Deo Edictis aeterNA DiaboLO Edo DIE MalefitIO Isbb» (Nel nome di Dio, nel nome di Dio lo costruii per l’eternità per mezzo dell’ottava conoscenza e fino al giorno del giudizio questo luogo sarà sacro.)

Uscimmo dalla torre detta astronomica, l'unica che conservava una cisterna d'acqua e che non cedeva questo elemento a nessun ambiente.

«Abbiamo così un altro forte significato esoterico. Il castello è basato sui 4 elementi, 1 è la torre "dell'acqua", 5 sono i camini "del fuoco", 8 le torri che mettono in comunicazione il cielo "aria" con il suolo "terra"..».

Mentre parlava, Maestro Giacomo si era accorto che mi ero fermato davanti a 6 figure umane con una rosa in mezzo disegnate sulla tromba delle scale.

«Rappresentano il cosmo. La rosa rappresenta SIRIO, la conoscenza. Dobbiamo affrettarci a uscire. Il tempo a nostra disposizione è quasi scaduto».

Rimasi affascinato, estasiato, turbato, scosso. Ancor oggi non trovo le esatte parole per descrivere le molteplici e poliedriche sensazioni. Le stesse che provai quando giunsi ad Aquila, la Gerusalemme federiciana, la città in cui ho scelto di vivere.

Vi giunsi da cavaliere, essendo stato ordinato qualche giorno prima. E vi giunsi in compagnia di Maestro Giacomo, Giovanni, divenuto Templare, e altri suoi tre fratelli. Entrammo in città cavalcando in posizione pentagonale. Aquila si presentava uomini in tutta la sua misteriosa pulsione. Era ancora un grande cantiere brulicante di maestri scalpellini, apprendisti e muratori.

Maestro Giacomo si informò chiedendo a un compagno muratore di Padre Matteo, appartenente all’ Ordine dei Cistercensi, un'altra figura che sarà importante nella mia vita. Raggiunto il cantiere dove si trova l’anziano priore, il Maestro gli andò incontro salutandolo nel modo giusto e mostrandogli un cordone che teneva sotto la tunica. Il cistercense ne mostra uno uguale. Anche se ormai avvezzo a gestualità rituali tra templari, rimanevo ogni volta affascinato. Lasciati i cavalli, iniziammo, sotto la guida del cistercense, un viaggio nella città di Aquila, la città che l’imperatore Federico II volle nella valle dell’Aterno.

«Fu tuo padre, mio caro Giovanni, a ricercare nei dati astrali il momento propizio per iniziare l’edificazione di questa città. In essa dovrà essere rappresentata la costellazione dell’Aquila. Alcune importantissime costruzioni sorgeranno, infatti, in luoghi precisi che corrispondono sulla terra ai punti della costellazione dell’Aquila in cielo».

Il racconto di Padre Matteo catturava talmente la nostra attenzione che nessuno proferiva parola. Tutti voleva ascoltare, tutti voleva sapere di questa straordinaria città, che Federico II voleva fortemente che diventasse la nuova capitale spirituale dell’Occidente. Sapeva bene, l’imperatore, che Roma, la città papale, era ed è una città sudicia dove ci si dedica più agli intrighi di palazzo e alle faide che a seguire gli insegnamenti del Cristo.

«Un giorno pagherà per essersi dimenticata del Redentore: in persecutione extrema sacrae romanae ecclesie sedebit petrus romanus qui pascet oves in multis tribulationibus; quibus transactis, civitas septicollis divertur; et judex tremendus juducabit populum» (Durante l'ultima persecuzione della Santa Romana Chiesa, siederà Pietro il Romano, che pascerà il suo gregge tra molte tribolazioni; quando queste saranno terminate la città dei sette colli sarà distrutta, ed il temibile giudice giudicherà il suo popolo. (Profezia di San Malachia))

Padre Matteo non potette trattenersi dal fare sue quelle parole profetiche e continuò il suo racconto sul grande sogno di Federico. Aquila doveva essere una nuova Gerusalemme! Ed è stata costruita sulla pianta della Città Santa, anche se con i punti cardinali invertiti, per essere speculare a essa. Se 66 è il numero di Gerusalemme, 99 è il numero di Aquila. 99 furono, infatti, le contade che furono accorpate per fondersi e divenire una città. La scelta del luogo preciso dell’innalzamento delle mura è stata fatta con perizia scientifica: a Gerusalemme scorre il fiume Cedron nell’omonima valle. Ad Aquila scorre l’Aterno. Federico II aveva lottato tutta la vita inseguendo il sogno di regnare su un grande impero che avesse le insegne di una “nuova Roma”. Non è un caso che l’imperatore avesse scelto l’aquila come sua insegna e come nome della sua città. Per i latini, infatti, tale uccello era auspicio di luce, di abbondanza e di prosperità. L’aquila raffigura l’Oriente, ed è l’immagine di Uriel, l’angelo del fuoco purificatore. L’aquila incarna la potenza cosmica. E’ il re di tutti gli uccelli, avendo il dominio assoluto dell’aria. L’aquila è presente simbolicamente in tutte le religioni: in Grecia è l’uccello di Zeus e suo messaggero; in Oriente essa è considerata il tramite tra la terra e il cielo ed è per questo simbolo dell’immortalità. Nelle Sacre Scritture l’aquila rappresenta gli angeli ed è anche il simbolo dell’evangelista Giovanni. Per la chiesa quest’uccello è il simbolo dell’ascensione della mente a Dio attraverso la contemplazione...

Vogliate scusarmi signori, ma stanno bussando alla mia porta. E’ Federico Giovanni, mio figlio che mi dice che è tempo di andare. Oggidì 24 agosto 1294, nel sagrato della Basilica di Collemaggio,ci sarà la cerimonia per l’elezione al soglio pontificio di un altro grande illuminato, di un altro grande figlio dell’Aquila: Pietro da Morrone, il papa eremita che prenderà il nome di Celestino v.

Come dite? Vi chiedete come sia possibile che un Templare, un monaco guerriero, possa essere padre? E’ un'altra lunga storia. Ora è tempo d’andare. Un giorno ve la racconterò. Ma se non avete pazienza d’aspettare, potete leggerla, insieme alle vicende narrate, in un libro, dal titolo, appunto: I FIGLI DELL’AQUILA.

 

Maestro Giacomo al fratello di Bonaventura: 
In Terrasanta combattiamo gli infedeli, ma non quelli che intendi tu. Intendiamo persone senza fede, che non osservano la fedeltà verso Dio e verso l’uomo. Essi vivono nel mondo dell’ignoranza e dell’egoismo, non in armonia con i propri fratelli. Oggi si considerano infedeli i mussulmani. Ma anche l’islam, come il cristianesimo, nasce da un tronco dell’ebraismo e i veri eredi del giudeo-cristianesimo, del cristianesimo sconfitto dalla rovina di Gerusalemme nel 135 d. C., sono i mussulmani.
 
«Chi è il Clareno?»

«Il suo vero nome è Pietro di Fossimbrone. Lo chiamo Clareno perché così lo chiama frate Pietro l’eremita. Dice che è come il ruscello Chiareno, che è un affluente del fiume Tonto. E’ un francescano che è stato costretto a rifugiarsi sulla Maiella perché scomunicato e perseguitato dalla Chiesa Romana. Frate Pietro lo ha accolto a braccia aperte ed ora tiene lezioni di spiritualità  all’interno della Congregazione».

«Perché è stato scomunicato?»

«Vi sembrerà strano, ma è stato scomunicato perché segue alla lettera l’insegnamento di Francesco, il poverello d’Assisi».

«Solo per questo?»

«Solo per questo!»

«Non mi sembra un grave peccato quello di seguire le orme del proprio Maestro!».

«Se si segue alla lettera il proprio maestro, che dice di liberarsi da tutte le ricchezze, di tutti i propri beni per donarli ai bisognosi predicando amore e fratellanza, e auspicando un ritorno alla vera chiesa così come la intendeva il Cristo allora sei tacciato d’eresia dalla Chiesa di Roma, che possiede ricchezze e terre e sembra interessata più al potere che alla cura dei fedeli».

«Per così poco?»

«Signor Bonaventura, devo pensare che non avete davvero idea di come vanno davvero le cose in questo mondo!».

Non ha mai creduto Bonaventura d’esser ritenuto fuori dal mondo, lui che è uomo di mondo! Eppure deve riconoscere che Miriam ha perfettamente ragione. Negli ultimi dieci anni della sua vita ha vissuto al cospetto dell’imperatore Federico II, nelle sue corti, veri e propri centri di cultura e di tolleranza, dove non s’è mai fatta discriminazione di nessun tipo. Dopotutto, non preghiamo tutti lo stesso Dio? Che differenza fa il modo in cui si prega?

«Io sono stata accusata per molto meno».

«Voi?»

«Non sapete che furono i vostri fratelli templari a trovarmi? Ringraziando il cielo sono riuscita a fuggire, non so ancora come».

«Di che vi hanno accusato?»

«Stregoneria».

«Stegoneria?»

«Ero con mia nonna. Lei mi stava insegnando tutto il suo sapere circa il potere medicinale di alcune erbe. Quel giorno era da noi una donna che doveva partorire. Era la moglie di un nobiluomo, che forse tanto nobile non era. E’ stato proprio lui a denunciarci».

«Perché?»

«Perché sua moglie perse il bambino. Ma non fu colpa di mia nonna. La donna si era sempre servita dei suoi infusi e unguenti e ne aveva sempre tratto giovamento. Non era la sola. Mia nonna era ricevuta nei palazzi di parecchi notabili di queste zone. Dopo quel giorno non fu più così. La donna perse il bambino e mia nonna ed io fummo accusate dal marito di averle fatto un sortilegio. Quando arrivarono le milizie papali, ci colsero nel sonno. Uccisero mia nonna a bastonate, dopo averla costretta a confessare di essere una strega. Povera nonna! Pensava che confessare fosse l’unica maniera per salvarsi. Io rifiutavo di ammettere di essere una strega, di adulare il dio del Male e di volere la morte e la distruzione dell’uomo. Decisero di sottopormi a tortura per indurmi a confessare. Mi trascinarono in uno dei loro tribunali. Non ero l’unica a essere sotto processo in quel momento. C’erano altre due donne, che stavano subendo atrocità tali che nemmeno la più grande mente diabolica e perversa potrebbe immaginare. Alla prima donna, nuda e con il corpo martoriato, strapparono i due seni con una tenaglia. Fortunatamente la donna morì per il forte dolore, e non ebbe il tempo di vedere che le sue mammelle furono date in pasto a due fanciulli piangenti che si trovavano accanto ad uno dei torturatori. Erano i suoi figli.  Le parole che accompagnarono tanto sdegnoso e terribile gesto furono piene di crudele ironia. Ridevano, quegli uomini, sul corpo di quella donna mutilata, ridevano e deridevano il suo ruolo di donna, di nutrice e di madre. All’altra donna, un uomo basso e grasso, stava infilando uno strumento di bronzo a forma di pera nel suo fiore nascosto. Una volta dentro, grazie ad un sistema di viti e bulloni, questo strumento si allargava sempre di più, lacerando le carni della povera disgraziata e procurandole un dolore allucinante. Finito questo atroce supplizio, le venne aperta la bocca e strappata la lingua con una pinza.  Le dicevano che tutto ciò le era inflitto perché era stata colta in flagranza di maleficio verbale. Io ero lì attonita. Pregavo! Pregavo Nostro Signore affinché si prendesse presto la mia vita e mi evitasse tali supplizi. Non mi resi nemmeno conto che era arrivato il mio turno. Non so per quale strano caso del destino, e ringrazio infinitamente Dio per questo, il mio supplizio durò poco. Dopo che “pulirono la mia anima” facendomi bere acqua bollente con carbone e sapone, mi legarono mani e piedi  e mi gettarono in un fiume profondo. Se fossi risalita, dato che l’acqua mi aveva rifiutata, sarei stata ritenuta colpevole ed avrebbero continuato ad infliggermi torture fino ad uccidermi. Invece sprofondai, non risalii più. Quello che è successo dopo è tutto piuttosto nebuloso. Ricordo un uomo a cavallo con un mantello bianco sul ciglio del fiume. Mi ha preso e mi ha lasciato sul monte davanti ad una grotta. Non so se davvero questo cavaliere sia mai esistito. So che oggi sono viva e devo rendere grazie al Signore per ogni giorno che mi è regalato». 

 
"Li senti? Non permettere mai a nessuno di far loro del male!
Ricorda sempre che c'è stato un tale Federico II di Hohenstaufen che è diventato un esperto falconiere e abile addestratore amando e rispettando gli uccelli. Ha risparmiato loro atrocità, mutilazioni e torture di ogni sorta. Dì a tutti di osservarli, di studiarli personalmente, di non affidarsi esclusivamente alle lezioni scritte e orali. La certezza non si raggiune solo con l'orecchio."